EDITORIALE

Ennio Paolo Pellegrini, Chiara Gargiulo
- La scuola non è un'azienda di Ennio Paolo Pellegrini
- Quando a parlare è chi ne sa: intervista a Salvatore D'Acunto di Ennio Paolo Pellegrini e Chiara Gargiulo
La scuola non è un'azienda
Avvertenza n.1
Data la natura neoliberista della metafora di cui mi servirò per descrivere la scuola, l’articolo potrebbe provocare attacchi di orticaria ai nostri compagni che sono compagni: essi sono avvertiti. Ma in caso, ignorata l’avvertenza, qualcuno ne venga comunque colto, invito chiunque a soccorrerlo.
Avvertenza n.2
Data la natura anglosassone della metafora di cui sopra, mi troverò costretto a ricorrere a del lessico specifico inglese, cosa che potrebbe provocare infarti plurimi ai nostri docenti di lettere: essi sono ugualmente avvertiti. Con la differenza che se, ignorata l’avvertenza, qualcuno ne venisse comunque colto, allora lasciate Darwin fare il suo corso.
Parto dalle definizioni che, per loro natura, sono pur sempre delle approssimazioni. Un’azienda la potremmo definire, con efficacia e funzionalità, un organismo composto da persone e beni votato, tramite la realizzazione di un prodotto, sia esso materiale o immateriale (e allora potremmo parlare di servizio), al raggiungimento di un fine economico. Bene, la scuola rientra pienamente sotto questa definizione. Le persone? professori, collaboratori scolastici, segreteria e presidenza, i beni? le aule, l’edificio, i libri, la carta stampata, il prodotto? gli studenti, il fine per così dire economico? che essi poi, da adulti, svolgano un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società, come sancito dall’art.4 della Costituzione (chissà se all’Albertelli almeno su quella siamo tutti d’accordo).
Non solo; nella scuola sono ritrovabili anche alcuni dei canonici profili aziendali: abbiamo un Ceo (il preside), un Consiglio d’amministrazione (il Consiglio d’Istituto),
un reparto di Marketing (i docenti che amministrano gli Open Day), uno di Human Resources (chi assegna le cattedre) e per ovvi motivi manca uno di Finance (è un po’ il principio dell’istruzione pubblica). Ma di nuovo, non solo; come le aziende, ogni singola scuola ha una sua vision ed una sua mission, ossia un obiettivo a lungo termine, che ne racconti anche l’identità e la filosofia, ed una serie di piccoli passi concreti per avvicinarcisi. Veniamo adesso dal generale al particolare e parliamo della nostra piccola azienda, il Liceo Classico Statale Pilo Albertelli. Che cos’è un Liceo Classico? Un istituto di formazione secondaria di secondo grado contraddistinto dallo studio della lingua e letteratura greca e latina, consapevole che, indipendentemente dalla scelta universitaria, vale la pena di spendere cinque anni nello studio delle fondamenta della cultura occidentale, per toccare con mano profondità altrimenti ignote, per conoscere l’origine delle nostre categorie di pensiero, per dedicarsi a qualcosa di bello (agli Open Day nessuno dice mai che quel che si studia qui è bello, chissà perché…). E seguitando, chi era Pilo Albertelli? Un professore che in quest’edificio, ai tempi il Regio Liceo Umberto I, insegnava filosofia, accademico e studioso dei presocratici di valore, antifascista torturato al commissariato della Gestapo di Via Tasso e ucciso, il 24 marzo 1943, assieme ad altri 334 alle Fosse Ardeatine. Se questa è la nostra identità, quali sono i piccoli passi concreti per ricordarla e farne l’epicentro nell’educazione e formazione degli studenti? Non mi sento abbastanza saccente da suggerire una via ai professori, e già rischia di esserlo, per alcuni di loro, semplicemente ricordare la vision di quest’azienda. Invece noialtri potremmo, dico en passant, magari una volta (non so, qualche progetto…) andare sulla via Ardeatina a rendergli omaggio? Se ve ne furono, fare una targa commemorativa per gli studenti ebrei espulsi da scuola con le leggi razziali del 1938?
Banalmente, dedicare anima e corpo alla meraviglia che abbiamo fortuna di studiare, esserci solidali nelle piccole difficoltà quotidiane, ripeterci quel bel motto di Don Milani che dice: “I care”, diametralmente opposto al fascista “Me ne frego!” (e magari anche evitare di tirare in ballo, bestemmiandolo, il nome di Pilo Albertelli ogni volta che un governo respira). Tutto bellissimo, no? E allora perché l’Albertelli vive un momento di crisi così profonda? Perché ci sono solo due prime? È un discorso estremamente complesso che non ho lo spazio né le energie di affrontare: sicuramente è dovuto ad elementi esterni (coff, coff, articoli di Repubblica, coff, coff), ma, se mi permettete, ne siamo responsabili anche noi, docenti professori studenti genitori. Ciononostante, di fronte ad una pessima pubblicità, la migliore smentita che un’azienda può fornire è un prodotto di qualità. Quel prodotto siamo noi. Pertanto, ragazzi di primo ed anche degli altri anni, non preoccupatevi di questa crisi, perché la risposta siete proprio voi. Siete l’unico valore vero di questa scuola. Ognuno di voi conta. Ognuno di voi, col vostro impegno, passione e dedizione, arricchisce oggi la scuola, domani il Paese. Personalmente, sono fiero di presentarvi questo primo numero di Ondanomala, perché dimostra la vivacità intellettuale, la curiosità e la creatività dei suoi redattori; che quest’azienda forse sta realizzando dei buoni prodotti. Buona lettura, Albertelliani.
Ennio Paolo Pellegrini
Quando a parlare è chi ne sa: intervista a Salvatore D'Acunto
Lunedì 25 settembre abbiamo avuto l’opportunità di intervistare Salvatore D’Acunto al termine del corso “La cittadinanza europea e i processi di integrazione” che ha svolto per tutti i ragazzi delle classi quinte. È stato possibile approfondire il ruolo geopolitico dell’Europa, gli obiettivi che i giovani devono prefissarsi per portare avanti questo programma iniziato nel 1993 a Maastricht e ribadire sia periodi ipotetici latini del primo tipo sia diritti fondamentali di stati aggrediti militarmente. Ma senza ulteriori indugi, l’intervista.
“Partiamo da una domanda semplice per conoscerla. Qual è stato il suo percorso di studi?”
“Io mi sono diplomato qui al Liceo Albertelli nel 1983, per poi studiare Giurisprudenza all’Università di Tor Vergata. Una volta laureato ho preso un primo master in European Law all’Università di Bruxelles e poi un secondo in International Relations sempre a Bruxelles. Ho avuto la fortuna di poter studiare in Belgio perché all’epoca ci si erano trasferiti i miei genitori per motivi di lavoro. Ho lavorato un paio d’anni a Bruxelles, poi ho tentato il concorso per entrare nella Commissione Europea e l’ho superato, iniziando a lavorare nel luglio del 1992 come funzionario per l’Unione Europea. Sono felice e mi ritengo estremamente fortunato per il mio percorso. ”
“Ad oggi sono più di trent’anni che lavora in Commissione e ne è grato, dunque la domanda sorge spontanea: si ritiene un convinto europeista?”
“Assolutamente sì. Questo non significa negare che ci siano problemi o limiti in questo percorso. Ancora oggi si fa fatica nel processo di integrazione e non sempre siamo in grado di trovare il corretto modo di comunicare nei confronti della società o dei giovani. Il progetto storico è però un progetto unico, non vedo altra scelta se non quello di
portarlo avanti in modo convinto. Per me è davvero gratificante avere avuto la fortuna di lavorarci, si tratta di uno dei progetti più belli che abbia mai avuto l’umanità.”
“Dalla nascita dell'Unione Europea, da Maastricht, sono passati 30 anni. Noi sappiamo che in media una "generazione" dura circa 28 anni, quindi quella che abbiamo alle porte è la seconda generazione di cittadini europei. Forse più europei dei precedenti, essendoci nati. Quali sono i percorsi di studio e i profili professionali di cui l'Europa ha bisogno in questo momento, da questa seconda generazione?"
"Innanzitutto credo ci sia bisogno di una certa flessibilità. Si tratta di capire la necessità del periodo ma anche della particolare città o regione in cui si vive o in cui si opera. Noi avevamo all'epoca un'idea più tradizionalista, il pensiero di un "posto fisso" da cui non muoversi più. Oggi, ragazzi, vi trovate a far fronte a una competizione molto più forte e molto più ampia, e l'unico modo per difendersi è la specializzazione nelle lingue, soprattutto l'inglese, e la specializzazione nel proprio ambito, qualunque esso sia. Non ci sono ricette magiche: bisogna puntare sulla qualità e sulla tradizione, tradizione che in Italia più che in altri paesi è molto forte."
"Parlando di Italia, lei crede che la concezione che i ragazzi hanno dell'Unione Europea sia diversa da quella che hanno i ragazzi degli altri paesi, i quali sono cresciuti in scenari politici diversi? Magari negli stati dove la politica investe maggiormente nei ragazzi e nelle scuole?"
"Io penso sinceramente di sì. Ci sono Paesi che hanno una vocazione europeista più forte degli altri. Tradizionalmente l'Italia è stata uno dei paesi più tradizionalisti, anche se ultimamente questa tradizione si è andata in parte perdendo. Io ho l'impressione però che nonostante certe disillusioni degli ultimi tempi il nostro Paese rimane un forte centro europeista. Parlando di politica nostrana, partiti che avevano dato prova di insofferenza nei confronti dell'Unione Europea hanno successivamente capito che è necessario
guardare all'interesse proprio ma proiettato in un interesse collettivo. Questo ci dimostra che c'è una forte influenza europea. Così come il nostro Paese, quelli che sono i Paesi fondatori, accompagnati ad esempio da Spagna o Portogallo, sentono questo legame più saldo rispetto ai più pragmatici Paesi nordici e ai nuovi Stati europei dell'est. La differenza dunque c'è, ma è necessario puntare proprio sui giovani per assicurarsi che questo progetto resista e credo sia quello che con i progetti digitali, nelle scuole e soprattutto il NextGenerationEU stia facendo la nostra Commissione."
"Affrontando il tema dell'insofferenza, come crede si possa portare avanti questo ottimismo e questa fiducia nei confronti di un'Unione che è ancora animata da singoli stati legati ai loro interessi nazionali? Un'Unione che in ambito geopolitico non riesce a garantire stabilità? Anche a livello di diritto internazionale come si conciliano i vari governi nazionali e un interesse collettivo europeo?"
"Gli Stati rimarranno in quanto fanno parte della nostra cultura, ma non penso che il sentirsi italiani precluda il sentirsi europei. I valori si accumulano, non si eliminano a vicenda. La cosa fondamentale credo sia relazionarsi e confrontarsi, relativizzando le esperienze nazionali a livello europeo e successivamente quella europea a livello globale. Cosa può fare l'Italia per migliorare l'Europa? Ma la domanda è: vale la pena continuare? Esistono alternative migliori? L'Europa ha dato prova che non esistono solo casi, come l'immigrazione, in cui emergono gli interessi nazionali, ma anche casi come il Covid dove la cooperazione è stata fondamentale. Certamente è più facile cooperare quando il problema è uguale per tutti. Per affrontare meglio quello che ci divide dobbiamo partire da quello che ci unisce. L'Europa ha un valore, politico e economico, e molti valori e noi dobbiamo lavorare insieme non solo per difenderli, ma anche per cercare di esportarli. Siamo stati e siamo ancora oggi esempio per altri paesi su molte tematiche, come il clima e le norme avanguardistiche che regolano ad esempio i cosmetici o il cibo. Il resto del mondo ci guarda e noi dobbiamo essere in grado di
essere l'esempio."
"Come si concilia l'orgoglio europeo con la sostanziale irrilevanza geopolitica?"
"Questa scarsa rilevanza politica è dovuta a un fattore molto semplice: il numero di governi. Dobbiamo tener conto del fatto che l'Europa ha 27 governi sulla carta, ma di fatto molti di più. Stati come la Germania che hanno un governo federale ma altrettanti Länder potenti che hanno peso a livello nazionale, sicuramente intaccano il governo centrale. Così come in misura minore in Italia fanno le regioni. Abbiamo 24 lingue, una moneta che non è unica. Per riuscire a tutelare tutti viene a mancare un'identità unica e questo influisce sul peso effettivo che possiamo avere. Gli Stati Uniti hanno un governo federale, ma i 50 stati parlano una sola lingua, usano una sola moneta, hanno le stesse basi culturali e storiche. Gli Stati Europei non hanno tutto questo."
"Lei crede che l'Unione Europea dovrebbe essere una realtà più compatta all'interno delle Nazioni Unite? All'interno del Consiglio di Sicurezza ad esempio quanto crede che la Francia, che ha il diritto di veto, dovrebbe portare avanti l'identità europea e non quella nazionale?"
"In termini storici non possiamo aspettarci che in pochi anni le cose possano cambiare, il cambiamento si scrive nei decenni e nei secoli. Ma ovviamente questo è quello per cui dobbiamo combattere e in cui dobbiamo sperare. Il nostro è un gap politico a livello globale. Chiaramente l'idea che la Francia rappresentasse l'Europa e non solo se stessa sarebbe chiaramente la svolta. Quello che serve è un'identità unica di rappresentanza. Sono necessarie riforme interne perché è necessario cooperare. Nel tempo, quando i Paesi Europei aumenteranno, i poteri finiranno per accentrarsi a Bruxelles perché l'Europa avrà bisogno di un centro di coordinamento non solo politico ma anche economico. Questo sarà il compito della Commissione Europea per le prossime generazioni. Siamo una realtà giovane, ma è necessario lottare per creare un'identità salda."
Ennio Paolo Pellegrini e Chiara Gargiulo